La Storia


LA STORIA DEL PARMIGIANO REGGIANO

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La I testimonianza della ‘primitiva tecnica’ per la fabbricazione di questo formaggio, dapprima fresco e poi nel corso dei secoli sottoposto a lunghi e meticolosi procedimenti di stagionatura, risale al 1450-1250 a.C., nell’età del bronzo.
Furono ritrovati i primi colatoi di ceramica che servivano a favorire il deflusso del siero di latte delle cagliate.
Il tutto accadeva tra Modena e Piacenza dove si sviluppò la civiltà ‘Terramare’..

A seguire, i Celti e i Romani (nel 183, a.C.), affinarono la tecnica casearia.
Successivamente, nel 535-536, con le invasioni barbariche, per opera del re goto Teodato venne introdotta in Emilia una nuova razza di bovini provenienti dalle steppe dell’Europa centrale.
I Franchi, poi nell’VIII secolo, delimitarono il territorio di produzione tra Parma, Reggio e Modena.
Inizialmente la produzione era unicamente limitata al proprio consumo ed aveva una brevità nel tempo perché non si conoscevano ancora le tecniche di conservazione.

Le autorità, Regia e Vescovile, siamo in pieno feudalesimo, credettero che i monaci Benedettini Cistercensi fossero un mezzo di sviluppo commerciale del prodotto caseario.
I frati avevano tutte le competenze nonché le condizioni ideali per favorire l’arte casearia ma necessitavano di un’agricoltura idonea a fornire l’alimentazione più giusta per i bovini. Ciò poteva realizzarsi solo se il terreno veniva adeguatamente irrigato per far crescere l’erba di cui si sarebbero nutriti i bovini. Attraverso una canalizzazione dell’acqua che scendeva dagli Appennini l’irrigazione fu possibile e conseguentemente crebbe il foraggio migliore per nutrire gli allevamenti. La tecnica agricola ‘a maggese’, praticata ogni tre anni, consentiva poi di ripristinare la fertilità del terreno. A fianco a questa prima condizione necessaria per lo sviluppo di questo nuovo ‘commercio’ ci furono la scoperta del sale e l’individuazione di un mercato di scambio del prodotto …. il sale, introdotto per la conservazione, di cui erano provvisti e che grazie ai pozzi dei monasteri, era di ottima qualità, più bianco di quello scuro che veniva da altre zone, ed in più non era soggetto a dazio. La grande ‘richiesta di ‘mercato’ di questo pregiato prodotto favorì la ricchezza dei monasteri stessi trasformandoli in aziende, allontanando però i monaci dall’antica regola e facendoli diventare intellettuali dediti alla gestione economica attraverso un ‘cellerario’.

Il ‘300 fu un secolo importante per il suo successo commerciale perché il ‘formaggio’ diviene un prodotto per la clientela benestante. Inizia nella cucina delle famiglie aristocratiche l’utilizzo del ‘formaggio’ come ingrediente principale in alcune ricette ad esempio i ‘Vermicelli’ o ‘Passatelli’. Fanno il loro ingresso anche le esportazioni in Toscana, a Pisa e Firenze, dove veniva venduto ai ricchi contadini. Lo troviamo tra gli acquisti della Mensa della Signoria, il governo fiorentino, i cui Priori usavano il ‘formaggio’ per la ‘supa’ , la minestra.IMG_8520
Man mano che passavano gli anni, nel ‘400, si hanno moltissime testimonianze anche relative alla produzione del burro che precedentemente non era ritenuto un prodotto commestibile ma piuttosto un medicinale. Infatti, dallo stazionamento di tutta la notte del latte in vasche di acciaio, si otteneva la ‘scrematura’, la parte più grassa saliva in superficie mentre la più scremata si posizionava in basso.
I vantaggi erano tre:

1° la levata della panna, in superficie, debatterizzava il latte sceso in basso ed il ‘formaggio’ aveva più possibilità di arrivare ad una maturazione regolare senza imperfezioni
2 ° si otteneva un prodotto secondario, il burro, dalla panna, che destava sempre più interessi per gli usi gastronomici
3° utilizzare meno sale per la conservazione perché si veniva a creare una fermentazione lattica corretta; conseguentemente a ciò il ‘formaggio’ aumentava di dimensioni e allungava i tempi di maturazione divenendo così un genere conservabile per anni interi. Si iniziò anche a curare la ‘forma’ pulendo la crosta per mantenere il ‘formaggio’ pulito. Da ciò ne deriva che c’era l’esigenza di avere diverso tipo di personale che curasse il ‘formaggio’, non più solo i Frati si dedicavano alla sua produzione: c’era il casaro (anche noto con il nome di ‘bergamino’), il sottocaldera (aiutante principale), il vaccaro, il mungitore e un giovane garzone detto ‘mena fuora le vache’, custode della mucche al pascolo.

Arriviamo al ‘500 dove i principali proprietari dei caseifici erano grandi feudatari: il Duca di Parma e il Duca di Ferrara. A questo periodo risale il primo utilizzo nel ‘formaggio’ dello zafferano, ‘Crocus Sativus’, che conferiva alla pasta un colore giallo più intenso.
L’espansione produttiva poi di fine secolo vide la comparsa di mercanti, coloro che commercializzavano altrove il prodotto. Infatti il formaggio fu disponibile in tutte le principali città italiane ed anche i Germania, Francia e Spagna. Sarà però in Italia che il Parmigiano risulterà il necessario costituente al progresso dell’arte culinaria: lo ritroveremo nelle minestre, nei tortellini ed anche presentato i bocconi ‘a pezzi’ e lamine ‘scaglie’. Nel ‘581 alle nozze del Duca di Mantova sarà protagonista in ‘dessert’, servito assieme a diverse varietà di frutta e verdura sia cotta che cruda.

Nel ‘600 nonostante la calamità della peste unita alle guerre sul territorio, gli investimenti in ‘vaccherie’ segnarono un aumento costante. Anche i nobili locali erano coscienti che dedicarsi alla fabbricazione di questo prodotto era proficuo e per aumentare il loro tenore di vita sempre più adeguato al loro rango, affittarono la tenuta delle ‘vaccherie’, ‘caseifici’ ad amministratori, aumentandone le entrate degli affitti e delle mezzadrie e fornendo il bestiame che prima era dei ‘bergamini’ con sue proprie mandrie . Il primo che iniziò una politica di costituzione di grande azienda agricola fu Ranuccio I Farnese, Duca di Parma nel 1605. Da notare che il primo documento ufficiale relativo alla protezione della ‘denominazione del parmigiano’ fu proprio a Parma nel 1612. Iniziò un commercio del ‘formaggio’ che rispondeva regole di mercato della domanda-offerta: le ‘partite’. La produzione estiva, che va da Maggio a Settembre, ‘maggengo’ e ‘settembrino’, e invernale ‘vernenghe’ venivano vendute a fine anno ed erano oggetto di trattative con esperti stimatori commerciali che valutavano il prezzo di mercato. I pagamenti erano rateali con I rata a Natale, II a Pentecoste (40 giorni dopo Pasqua) e III a San Michele (29 settembre). Vista la sua nobile quotazione il ‘Parmigiano’ veniva sempre più richiesto in cucine altolocate a corte delle grandi aristocrazie. Lo vediamo comparire nel Novembre del 1655 al banchetto per la Maestà della Regina Christina di Svezia, in Francia con il Fromage de Parme citato nel dizionario di Antoine de Furètiere nel 1690.

Nel ‘700 si inizia a dar corpo a soluzioni avanzate per la costruzione di un ‘magazzino raffreddato’ al fine di contrastare le fermentazioni indesiderate delle forme rigonfiate, ‘palloni’. Si pensò di ricorrere ad un sistema naturale di magazzino scavandone uno sotterraneo: in questo modo alle forme viene data anche una temperatura ottimanle per la loro conservazione/maturazione. Sempre di pari passo con l’impiego culinario troviamo come cultori di questo pregiato prodotto nomi di spicco come il ministro parmense Du Tillot che forniva il Cardinale De Bernis, il cuoco Vincent de la Chapelle noto come uno dei più grandi cuochi di questo secolo al servizio della nobiltà, e Francesco Leonardi che aveva servito come cuoco l’imperatrice di Russia Caterina II.

L’800 fu il secolo più ricco di mutazioni nella storia del Parmigiano Reggiano, nel 1859 i regimi ducali ed ecclesiastici si estinsero per sempre e delle grandi corti dei monasteri resterà solo il ricordo. L’Italia fino a Parma fu invasa dai francesi e Napoleone inserì dazi elevati sul nostro formaggio precludendone la commercializzazione che prima vantava e volendo privilegiare quelli di cui la Francia era ricca.IMG_8567

Reggio ebbe difficoltà ad esportare sul suo mercato naturale di Parma e trovò perciò la via di Milano, in particolare Lodi ne divenne il centro. Inizia la confusione con l’esportato tra i nomi di formaggio grana Lodigiano e Reggiano. Facciamo riferimento ad una testimonianza di una dita di Verona che aveva ordinato del Parmigiano ad una ditta di Lodi ricevendo una partita di formaggio fabbricato in Lombardia. Dopo una lunga vicenda giudiziaria la Corte di Cassazione di Torino con sentenza del 26 Aprile 1898 dichiarò che “la denominazione di Parmigiano deve essere riservata esclusivamente al formaggio che si fabbrica nel territorio degli antichi stati parmensi e dichiara non sussistere che in Milano il formaggio Lodigiano si chiamasse Parmigiano”.

Dopo l’invasione delle truppe napoleoniche nel Nord Italia, i tecnici francesi, interessati all’arte casearia, introdussero per primi i termometri per controllare le temperature di trasformazione del ‘formaggio’ utilizzando la scala Reaumur, tutt’oggi impiegata dei casari nelle fabbricazione del Parmigiano Reggiano e ricordo tangibile di secoli passati. Valenti tecnici locali affiancarono i francesi come il reggiano Filippo Re che continuò nella ricerca di ottenere un formaggio sempre più di qualità. Egli affermava instancabilmente, a proposito del foraggio che avrebbe alimentato le mucche che avrebbero dato il latte, che “il prato artificiale e naturale formano la base di ogni buona agricoltura”. Introdusse l’erba spagna, ‘erba medica’ e il trifoglio venivano perché avevano il vantaggio di fornire rese in foraggio 3-4 volte superiori a quelle dei vecchi ‘prati-pascoli’ essendo piante con batteri azoto-fissatori ed anche perché erano in grado di ripristinare la fertilità del terreno. Si abbandona così la tecnica ‘a maggese’ che prevedeva il riposo del terreno ogni 3 anni.
Al livello nazionale si capì che la formazione era necessaria, si sentì perciò l’esigenza di mettere le fondamenta alla scuola di Zootecnia e Caseificio che venne fondata a Reggio con contributi della Provincia e del Ministero dell’agricoltura. L’obiettivo era quello di formare dirigenti di caseificio, casari, allevatori di bestiame e di eseguire ricerche scientifiche. L’istituto tuttora esistente come Istituto Tecnico Agrario oggi porta il nome del primo direttore Prof. Antonio Zanelli. La scuola attraverso la preparazione tecnica di futuri giovani casari fu un determinante mezzo di crescita per il settore caseario reggiano: nascono infatti le prime caldaie a vapore per rimpiazzare il fuoco che daranno una svolta decisiva al formaggio.

Tradizionalmente i casari per la trasformazione del Parmigiano Reggiano consideravano tre forze : ossia siero innesto, caglio naturale e fuoco. Dall’accorto dosaggio di queste 3 forze il casaro come un alchimista di campagna, traeva i suoi risultati.
L’abilità dei migliori casari stava, oltre ad esercitare i propri sensi, nell’esperienza di capire quale fosse lo stato di acidità del latte da cui si doveva impostare il processo di lavorazione. Il latte doveva avere un inizio di fermentazione lattica non sempre possibile però perché era inquinato in modo irregolare. Allora alcuni casari si accorsero che con l’aggiunta di siero acido del giorno precedente, ‘siero innesto’, si avevano effetti positivi sul formaggio utile a far diminuire il numero di scarti ed aumentare la resa (si passò dal 5,5% al 6,5%), tecnica che ancora oggi è in uso.

Nascono, nel 1898, a Reggio, le latterie sociali cooperative affinché gli allevatori imparassero ad andare d’accordo per poter gestire efficacemente un’azienda. Non fu facile per persone abituate solo a produrre all’interno, il passaggio a un mentalità cooperativistica. La commercializzazione dei 14 caseifici attivi in Bibbiano considerati i migliori della provincia di Reggio vide la nascita della “Società Bibbianese per il Commercio del Formaggio”. Ed è proprio qui che inizia che il sistema di valutazione e di bollatura delle forme per valorizzarne la qualità e l’origine del prodotto. Bibbiano poi si guadagnò in questo periodo il soprannome di “culla del grana”.

Per quanto concerne invece l’utilizzo del nostro Parmigiano nelle cucine lo sviluppo delle ferrovie ne favorì enormemente la commercializzazione in Italia ed all’estero. Il prodotto era quindi disponibile in tutte le tavole e l’Artusi, nel 1891 pubblicò il testo che risultò il punto di riferimento della cucina italiana “la scienza in cucina e l’arte di mangiare bene”.

Testo scritto da Giuliana Biondini e Gisella Scolaro.